Franco Parpaiola: Quadruvium vi racconto di quando mi volevano fare un monumento

Scritto da Marista Urru   
sabato 12 giugno 2010
Chiesa di Santa Maria Maggiore
Da Wikimedia Chiesa di  Santa Maria Maggiore a Codroipo


Quadruvium  è il mio Paese natale, e ad ogni visita che facevo a casa dei miei, mi diveniva sempre più alieno, sino ad apparirmi pieno di gente strana e lugubre.

Era diventato da poco una Città, ed aveva ormai un non so che di particolare: appariva come una via di mezzo tra una tranquilla e cinica cittadina di provincia e una cloaca di interessi da ladri di polli.

Il fatto è che era in mano ad una banda di imbecilli, avidi di soldi, falsi nel parlare e nel fare, ne veniva fuori una metropoli campestre friulana, abitata ormai da marziani.

Anche la Chiesa parrocchiale, non era più la semplice Chiesa di una volta, ma, come si addice ad ogni Città che si rispetti, era stata trasformata in un Duomo.





Il mio Paese, ormai lontano nel tempo, quello in cui i sapienti lavoratori della Terra e i provetti artigiani costituivano le colonne portanti di una civiltà pacata e lavoratrice che vantava ben due millenni di Storia e che nessuno al mondo, era mai riuscito ad intaccare, non esisteva più.

Nemmeno la Repubblica veneziana con i suoi Dogi aveva potuto scalfire la caparbia tenacia dei paesani, né tanto meno gli austro-ungarici, con la loro crudeltà, erano riusciti a squilibrare le fondamenta di una comunità rimasta tranquilla ed operosa nei secoli, sulla quale il tempo sembrava passare senza poterne scalfire la tenace tranquillità.
Bastarono invece un paio di lustri e una manciata di bifolchi dalla parlantina facile, a cancellare duemila anni di Storia.

Queste, già da diversi anni ormai, erano le mie amare impressioni ogni volta che da qualche angolo di mondo facevo una scappatina a casa a trovare i miei.

Ricordo bene, fra le tante, la mia visita allorchè venivo da Komarno, una Cittadina in Slovacchia, ai confini con l’Ungheria, dove durante le Guerre Iugoslave, nel Cantiere Navale della SLK sulle rive del Danubio, per conto di due Armatori tedeschi, controllavo e seguivo la costruzione di due Navi porta - contenitori di 4.000 Tonnellate l’una.

 Ormai mio Paese era il paese –che - non –esisteva- più, e come dicevo, quello che man mano ritrovavo al suo posto, mi piaceva sempre meno: l’altezzosa ignoranza della gente era quasi grottesca, rasentava l’inverosimile mentre, e sempre più , sembravano diventare diffidenti gli uni con gli altri.

Erano lontani i tempi della tranquilla convivenza, tanto che a volte notavo che anche tra amici e vecchi compagni di scuola era venuta a mancare la consueta sincerità Se è vero come dicono, che i tempi rimango invariati nei tempi e che è solo la gente che cambia, allora quella del Paese - che - non - esisteva - più, era decisamente cambiata in modo innaturale e negativo. Si era trasformata in una banda di diffidenti e miscredenti, i quali niente avevano a che vedere con coloro che un tempo popolavano un luogo da sempre fiorente e sicuro.
 Sul paese - sparito si era ormai stesa una cupa coltre di invidia e di rancori, bastava osservare la gente ai banchi delle 25 o 26 tra Osterie, Pizzerie e Caffè bar che si potevano contare nel raggio di neanche un Chilometro, quanto era diventata guardinga, suscettibile e ombrosa, diffidente del prossimo, spesso irascibile.

Di veramente genuino era rimasta solo una manciata di uomini, ovviamente erano tutti grandi amanti del buon vino del buon mangiare, sinceri amici del Tocai, e candidati a morte prematura a causa della cirrosi al fegato o della trombosi dovuta all’alto tasso di colesterolo o per arresto cardiaco dovuto all’alta pressione, solo piccole malattie collaterali al buon vino e al saporito mangiare, che correvano rampanti su e giù per le strade della città, scegliendosi a casaccio il candidato di turno.

Quegli uomini erano gli unici con cui andavo d’accordo, con loro si poteva parlare con tranquillità, si sentiva che era rimasta gente sana e sincera. Puntualmente ci si trovava in Piazza verso le undici di mattina, e come ogni giorno tante eternità prima, immancabilmente ci ripromettevamo di farci solo uno o due bicchieri di bianco per poter andare puntualmente a casa per l’ora di pranzo.
Il problema però consisteva nel fatto che nei paraggi c’erano troppe Osterie e tutte vantavano buoni vini e spuntini e noi, da uomini semplici ma avveduti, sapevamo senz’altro onorare quanto c’era di buono e genuino intorno a noi.

Puntualmente, solo verso le due del pomeriggio, come d’incanto il nostro giretto mattutino terminava e noi, che avevamo come al solito saltato il pranzo , ce ne andavamo a casa, a sorbirci rassegnati le consuete ramanzine delle rispettive mogli o madri che non volevano in nessun modo capire che erano proprio queste nostre comunioni mattutine che ancora tenevano acceso un barlume di ricordo del Paese scomparso.
I loro predicozzi, veri e propri monologhi che potevano durare anche una buona mezz’ora , non riuscivano di certo a distruggere in noi il desiderio di mantenere in vita la fiammella che ricordava il Paese scomparso, sempre sperando che qualcuno più giovane si unisse a noi, pronto a continuare la tradizione, una volta che ce ne fossimo andati per sempre. Per questo l’indomani mattina ricominciavamo puntuali il solito rituale mattutino.

I bigotti cittadini invece si tenevano lontani da noi, ormai eravamo diventati ai loro occhi dei paria , non ci degnavano di uno sguardo che non fosse di commiserazione. L’ottusa alterigia tipica dei farisei proibiva loro di dialogare con noi per quelli noi eravamo: uomini semplici, schietti e genuini, qualità  queste sconosciute a molti di loro,  che ci ritenevano invece  solo degli zoticoni, ubriachi tutto il santo giorno, e pertanto da non frequentare.

Il giorno migliore della settimana per me era il Martedì, sin dalla mia infanzia quello era il giorno in cui c’era il mercato settimanale all’aperto, solo allora e da diversi anni ormai, riappariva finalmente il Paese che tanto mi mancava. Quand’ero bambino c’era pure il mercato del bestiame il quale era ben conosciuto non solo in tutto il Friuli, ma anche nel Veneto, e proprio per questo i vecchi di allora chiamavano scherzosamente il Paese, il Paese degli Asini.

Il martedì venivano dai Paesi vicini i contadini per vendere la loro verdura, con il ricavato le donne di casa comperavano stoffe per farsi i vestiti e tutto ciò che serviva in casa e che la Terra non dava. Quello è un  giorno diverso: tutti si conoscono, si salutano strada facendo, si intrattengono un momento accanto ad una o l’altra bancarella a scambiare quattro parole.

Dalla Stazione Centrale all’ Asilo infantile il Paese risorto si trasforma in un lungo Supermercato dove c’ è tutto e di tutto, dalla Bancarella con pesce “fresco” dall’Islanda , posta a un passo dalla Stazione, a quella del formaggio nostrano e olandese, posta non lontano dall’Asilo. Tra queste due Bancarelle, lungo circa un Chilometro, si snoda il resto del Mercato e il Paese  finalmente risorge .

Verso Mezzogiorno poi, quando il Mercato pian piano volge al termine, in molti si ritrovano a Pranzo nelle Osterie e nelle Locande attorno alla Piazza, dove si serve la buona e genuina cucina friulana, Pane ancora caldo e fresco di Forno, e l’immancabile Baccalà con l’immancabile Polenta. Semplici e prelibati piatti casalinghi della patria della cirrosi al fegato e del colesterolo alle stelle.
L’ora fatidica per il Paese suona però solo alle 14, quando gli spazzini comunali iniziano a pulire le strade dopo il Mercato. E debbo dire che ogni volta che li vedevo all’opera mi chiedevo chi, in fin dei conti, conduceva e reggeva chi; non sono mai riuscito a capire se era lo spazzino che reggeva la scopa e puliva la strada, oppure era la scopa che reggeva lo spazzino e contemporaneamente con ogni spazzata che dava, puliva la strada, cancellando in questo modo il Paese, che di nuovo spariva e con lui sparivano le sue tradizioni, il suo folclore, la sua sincerità.

Più tardi, quando verso le 16 le Strade e la Piazza erano di nuovo pulite, statene certi, tutto ritornava come prima, con la stessa apatia, la stessa intolleranza e arroganza di sempre, e la gente riprendeva pian piano a morire un'altra volta. Solo noi, gli intrepidi eroi, quelli della Banda paesana del Tocai o del Merlot meridiano, con piccoli semplici contorni di fettine di Salame e formaggio nostrano, al massimo con un poco di Grana Padano e pane fresco e caldo di forno, oppure con dei semplici triangoli di Mortadella alti appena due dita in umido in una semplice salsa al pomodoro, ci sentivamo ancora vivi, ma purtroppo eravamo consapevoli di esser circondati da un’orda nefasta di Zombi.

Zoticoni a questo Mondo ce ne sono tanti, di tutte le fattispecie e di tutti i colori, da questa sia che dall’altra parte dell’oceano in Germania come in Italia, anche a Bremen dove abito se ne trovano diversi, e di conseguenza non c’è da meravigliarsi se codesti prototipi di homo sapiens si trovano pure nel mio Paese natale , posto nel bel mezzo del Friuli, e in definitiva scomparso perché da poco elevato a città.

Il Paese che non esiste e che non ha nemmeno più Chiesa Parrocchiale, in quanto anche quella come in ogni Città che si rispetti è stata elevata agli altari dei Duomi, come amaramente dovetti un giorno constatare, era pieno zeppo di zoticoni, anzi, era infestato da zoticoni, era inquinato da zoticoni e un po’ tutti, ma in special modo uno di loro ce l’avevano su con me: quello fra suoi vaneggi dovuti molto probabilmente ad un colpo di sole o a un coppo piovutogli in testa chissà dove, si convinse che ogni Città che si rispetti doveva avere il suo bel monumento.  

E' risaputo  che un monumento avrebbe dovuto mostrare qualcuno o a qualche cosa di saliente ed importante nella cronaca cittadina. Il guaio era che né il Paese scomparso prima, né la Città dopo, vantavano eroi o fatti di cronaca salienti, che so ,del calibro della presa della Bastiglia in Francia da esempio, anche perché , a ben vedere, di Bastiglie da prendere non c’e n’erano mai state a Quadruvium. C’erano è vero, una casermetta e una caserma vuota, ma quelle, da tanto decrepite che erano, non le voleva prendere nessuno.

Gli unici eroi, sia del Paese scomparso prima, che della Città miracolosamente apparsa al suo posto dopo, erano quelli che facevano i salti mortali per arrivare dignitosamente a fin di mese senza far debiti, e se ne fregavano altamente di un Monumento che li rappresentasse. A quelli non serviva un monumento, sarebbe servito piuttosto un lavoro e quello nessuno era in grado di procuraglielo, figuriamoci poi se mai poteva un tizio lustro e ben pasciuto affetto da doglie cerebrali perché sulla soglia di partorire un Monumento Cittadino. Il guaio è che nemmeno di Poeti e grandi pensatori c’era traccia nelle cronache paesane del passato, e figuriamoci poi se se ne potevano trovare in quelle più recenti, niente, non se ne trovava nemmeno l’ombra, e all’Asilo infantile un Monumento ai Caduti delle Guerre esisteva già.

La nuova Città però, secondo il nostro arguto concittadino, aveva bisogno di un Monumento,e dopo tanto penosi travagli mentali dalle sue meningi provate scaturì l’idea di dedicare all’Emigrante il necessario monumento. »Franco ti vogliono fare un Monumento «, mi salutò un mattino il mio amico professore in pensione e pilastro portante della nostra Banda del Tocai Mattutino.

Senza indugiare ad approfondire e spiegarsi meglio, mi pilotò nell’Osteria “Sot il Piul” dove gli altri nostri amici si stavano già allenando e si riscaldavano diligenti il palato con piccoli sorsi dello squisito nettare friulano che gli usurpatori ungheresi, come se non avessero già derubato e profanato e scorazzato abbastanza su e giù per Friuli, ci volevano rubare.
»ho sentito che in Comune stanno discutendo sulla possibilità di erigere un Bel Monumento agli Emigranti, e di conseguenza, dato che anche tu sei un Emigrante, ti voglio fare un Monumento «, mi spiegò appena salutati gli altri, continuando il discorso iniziato poc’anzi per Strada.

 Prima assaporai un sorso del Tocai che il mio amico oste e compagno di scuole elementari mi mise davanti non appena raggiunsi il Banco, poi mi accesi una sigaretta. »Credevo che voi altri aveste contato ormai tutti gli imbecilli del Paese, vedo che quello vi è scappato, come mai ?«, chiesi rivolto al gruppo. »Non cominciare a incolparci di questo e di quello, orami siamo una Città e di imbecilli ce ne capitano addosso ogni giorno che passa e da tutte le parti, tanto che ormai cominciamo a perderne il conto. Quello là ad ogni modo lo abbiamo individuato e ti giuro che d’ora in poi lo terremo d’occhio «, mi promise un altro mio compagno di Classe, mentre gli altri con cipiglio e sguardo fermo e greve, annuivano solenni. »ne hanno già parlato in Giunta durante a loro ultima riunione « ci informò il nostro amico oste da dietro il Banco. »Probabilmente non ne faranno niente, e poi ditemi, dove li andrebbero a trovare i soldi, per quello che ne so io il Comune è vicino all’insolvenza, è quasi in Bancarotta, o mi sbaglio «? »Non esserne tanto sicuro Franco, da quelli ci si può aspettare di tutto, questo e ben altro e molto di più «, sentenzio il professore che al di fuori di Marx e Lenin, e di un po’ di Mao, non si fidava che di noi.

 Da quel fatidico giorno in poi la Città nata come per incanto da un Paese -  scomparso, si divise in due.
Da una parte si allinearono tutti i cittadini pro Monumento, e quelli erano in molti, dall’altra tutti i paesani con la Testa sulle spalle che erano in pochi.

 Fu così che la ridicola e penosa farsa sul pro o contro un Monumento all’Emigrante iniziò , tra il grande scuotimento di testa di chi, pur rimanendo neutrale e fuori dalle discussioni, si sentiva preso in giro, e quelli erano gli Emigranti.

Continua.


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